Perché alcune persone sono resistenti al virus del Covid-19?

Perché alcune persone sono resistenti al virus del Covid-19?
Ultima modifica 07.07.2022
INDICE
  1. La teoria dell’infezione lampo
  2. Cosa dicono gli scienziati di Boston
  3. Il ruolo di alcuni recettori
  4. Lo studio della Rockfeller University di New York
  5. Le caratteristiche di chi è più colpito dal virus
  6. I passi della ricerca

Esistono soggetti che non hanno alcuna probabilità di contrarre il Covid-19? Forse, anche se la scienza non è ancora riuscita a dare una spiegazione univoca in merito. Ci sono indubbiamente persone che ancora oggi sostengono di non essersi ammalate, nonostante il virus circoli da tempo ma le teorie sul perché sono differenti.

Queste le più accreditate.

La teoria dell’infezione lampo

Secondo l'immunologo Mauro Minelli, responsabile per il Sud Italia della Fondazione per la Medicina Personalizzata, il virus è ormai in circolazione da un tempo talmente elevato che sia praticamente impossibile che esista qualcuno che non vi sia ancora entrato in contatto.

Il fatto che non tutti si siano ammalati potrebbe invece dipendere da altri fattori. Una delle ipotesi più accreditate è che esistano soggetti che abbiano incrociato il virus, ma che il loro organismo lo abbia eliminato prima che potesse svilupparsi e provocare la malattia.

A sposare questa tesi è anche un recente approfondimento pubblicato sul Guardian, che definisce il fenomeno infezione abortiva, che scatenerebbe lo sviluppo delle cellule di memoria T in grado di proteggerci dal pericolo di infezioni successive.

Una tesi che Mauro Minelli giudica assolutamente plausibile, che renderebbe molte persone non immuni ma soggetti che sviluppano infezioni lampo, ulteriormente indebolite dalla vaccinazione.

Tutti questi elementi però non fornirebbero un'immunità assoluta e non è detto che una persona che sviluppa un'infezione lampo ad una variante non possa essere colpita da un'altra.

Cosa dicono gli scienziati di Boston

All'inizio del 2021 alcuni scienziati di Boston hanno notato come la proteina spike del SARS-CoV-2 fosse molto simile a quella di altri quattro coronavirus e in particolare di OC43, che a fine dell'Ottocento ha causato un'epidemia di polmonite ma che con il tempo è diventato meno aggressivo e ogni inverno torna causando però solo influenze o raffreddori. Considerando la somiglianza tra la proteina spike dei virus OC43 e SARS-CoV-2, è plausibile che chi si infetta con il secondo ma ha memoria di contagi da OC43 non si ammali di Covid o lo faccia in modo leggero.

Il ruolo di alcuni recettori

A determinare l'infezione da SARS-CoV-2 è la sua proteina spike che si attacca a recettori specifici delle cellule umane, tra cui quello noto con il nome Ace2 e questo ha portato alcuni scienziati a sostenere che una minore presenza di Ace2 nei polmoni dei bambini rispetto agli adulti possa spiegare, in parte, perché i più piccoli sviluppino infezioni di minore entità.

Allo stesso modo, secondo un articolo pubblicato nel 2020 dal J Clin Allergy Immunol le persone affette da asma allergica avrebbero una minor capacità di produrre Ace2 e di conseguenza di essere colpite da forme gravi di Covid.

Lo studio della Rockfeller University di New York

Uno studio internazionale formato da un gruppo di 250 laboratori coordinati dal professor Jean Laurent Casanova della Rockfeller University di New York ha teorizzato che esistano casi di immunità al Coronavirus.

La parte italiana della ricerca è stata portata avanti da un team di ricercatori dell'Università romana di Tor Vergata, guidato dal professore di genetica medica Giuseppe Novelli.

A portarli gli scienziati a questa conclusione, l'osservazione di persone che, nonostante contatti diretti ed estremamente ravvicinati con soggetti positivi, non ne sono state contagiate, quasi come se potessero contare su una barriera, invisibile ma molto efficace e resistente, in grado di proteggerle. «Sono persone che sicuramente sono state esposte, quindi a contatto, con chi aveva la malattia in atto, ma nonostante ciò risultano negative a ogni tipo di test, sia molecolare sia sierologico, oltre che risultare corrispondenti a tutta una serie di criteri che servono a identificare in modo chiaro questa condizione. Stiamo raccogliendo soggetti con queste caratteristiche in giro per il mondo per analizzarli geneticamente, mettere insieme i dati e vedere cosa possano raccontarci», ha affermato Giuseppe Novelli, genetista del Policlinico Tor Vergata di Roma e presidente della Fondazione Giovanni Lorenzini di Milano, capogruppo del team italiano degli scienziati impegnati nello studio.

Il nome con il quale vengono identificati questi super fortunati è resistenti, appellativo più che mai calzante ed evocativo, che ricorda sia la resistenza fisica al virus sia quella psicologica alla pandemia.

Cosa renderebbe insensibili al virus

Per la scienza l'esistenza di persone resistenti ai virus non è una novità, visto che si tratta di eventualità che si presentano quasi sempre, ma in questo caso la sfida è stata individuare le cause di questo fenomeno.

A rendere alcune persone di fatto immuni al contagio da Sars-Cov2 sarebbero soprattutto specifiche condizione genetiche, in grado di indurre una risposta immunitaria differente rispetto a quella della stragrande maggioranza della popolazione. Questa casistica ricorda in parte quella già riscontrata con altre malattie, come l'Hiv, dove la delezione del gene, il CCR5 delta 32, conferisce a chi la possiede una sorta di resistenza nei confronti dell'infezione. Nonostante i numerosi studi portati avanti negli anni, anche in quel caso i meccanismi della protezione non sono tutt'ora del tutto chiari. Così come quelli relativi all'immunità da Covid-19.



Le caratteristiche di chi è più colpito dal virus

Al momento, le uniche certezze sono che esistono determinate condizioni in grado di rendere alcune persone più o meno suscettibili al Coronavirus.

Oltre alla genetica, un ruolo importante sarebbe giocato anche dai gruppi sanguigni. «Che il gruppo sanguigno influisca sul contagio e sulla malattia lo ha dimostrato anche uno studio canadese condotto su oltre 220mila persone, e apparso alcuni mesi fa sugli Annals of Internal Medicine», spiega l'infettivologo Roberto Cauda, ordinario di malattie infettive all'Università Cattolica e direttore dell'Unità operativa di malattie infettive del Policlinico Agostino Gemelli Irccs di Roma. Secondo quella ricerca, il gruppo sanguigno 0 avrebbe il 12% di possibilità in meno di contrarre il virus, percentuale che migliora, salendo fino al 21%, in caso di Rh negativo. Le persone aventi il sangue di gruppo A e AB, invece, sembrerebbero essere più suscettibili al virus del Covid-19.

I passi della ricerca

«Abbiamo cominciato a concentrarci sul Dna delle persone perché è lì che risiedono le differenze genetiche» ha affermato il prof. Giuseppe Novelli.

Il primo passo compiuto dagli esperti è stato quello di puntare lo sguardo su chi la malattia l'ha contratta in modo serio. «Per prima cosa abbiamo studiato i casi gravi, ovvero quelli più interessanti da un punto di vista scientifico perché la genetica si focalizza sugli estremi per trovare le differenze», afferma il Prof. Novelli.

Il ruolo dell'interferone

Dalle osservazioni è emerso che la probabilità di contagiarsi o meno sarebbe determinata anche dall'interferone. Come specificato dettagliatamente dal report della ricerca di Tor Vergata, pubblicata sulla prestigiosa rivista Science, «Gli individui che mancano di IFN (interferoni) specifici possono essere più suscettibili alle malattie infettive».

Alla fine della dettagliata osservazione, è stato riscontrato che il 10-12% dei malati gravi di Covid-19 ha riportato differenze genetiche nella produzione dell'interferone, la molecola di difesa numero uno che il corpo produce quando si infetta. Contrariamente a quanto comunemente pensato, infatti, la prima linea di difesa del nostro organismo in caso di attacco di un virus non è costituita dagli anticorpi, ma dalle molecole che cercano di neutralizzare o bloccare il virus.

Nello specifico, il team di ricerca si è reso conto che i soggetti che si ammalano più gravemente non producono interferone. «In loro mancava la prima linea di difesa chiamata 'immunità innata', ed è importantissima perché se difettosa, è chiaro che il virus vive e trova terreno fertile».